Se dico Armenia la prima domanda potrebbe essere: “dov’è?”
Nascosta lassù, tra le montagne del Caucaso, dove si è posata l’arca di Noè.
“E loro, come sono?” Sono pochi, ma contrariamente al calo demografico italiano principalmente causato da bassa natalità, emigrazione e la cosiddetta “fuga di cervelli”, gli appena 3 milioni di residenti in Armenia sono i superstiti di una lunga scia di dolore che si è dovuta ripetutamente difendere, nascondere o dileguare per non subire atroci conseguenze.
Una zona altamente sismica, il venerato Monte Ararat sconfinato su un’altra bandiera, la desertificazione industriale post-URSS, i confini chiusi ad Est e Ovest, la scrittura “a zampa di gallina” e la chiesa apostolica armena; un puzzle complesso e tutt’ora incompleto quello armeno che nel 2024 ospita la Conferenza globale sul turismo del vino nella sua capitale, Yerevan.
I grandi Paesi del vino e le Autorità locali, gli itinerari culturali e le visite alle realtà vitivinicole, il comparto enoturistico e quello economico, uniti per una 3 giorni di azioni da intraprendere insieme. Le mie saranno di riflessione, verso un Paese che raccoglie i cocci quando deve ripristinare le sue antiche origini e asciuga le gocce quando deve ricucire con un passato ancora troppo vivo nella memoria. Ma cocci e gocce sono anche il loro millenario legame col vino, un mito che aveva reso l’Armenia “terra di vino e cavalli” e che vuole ripartire dopo lo stop forzato che l’aveva costretta a produrre Brandy per Mosca e coltivare uva come Pagadebit, trovando nell’enoturismo il volano di una new economy.
Dividerò la Nazione in lettere, ognuna con un significato ben preciso, in modo da poterla ripercorrere nelle sue tortuose strade intrise di fascino, cultura e opportunità:
A-reni
Se dici Armenia e vino, non puoi non parlare di Areni. Occhio però a non fare confusione come per il nome Ararat, in quanto la parola “Areni” ha uno, nessuno e centomila significati diversi. Areni sito è un luogo archeologico che vede la luce soltanto nel 2007, in una piccola grotta nel canyon di Arpa, dove è stato ritrovato il più antico complesso vinicolo conosciuto al mondo, datato oltre 6100 anni. Ma Areni non è solo storia; è il simbolo di un passato che cerca di rinascere e farsi strada nel mondo moderno, da rituale a vitigno emblema di una Nazione. Infine, Nor Areni è il nome di una recente avventura avviata nel 2019 a circa 1200m d’altezza a pochi passi dall’antico Monastero di Noravank, nella regione Vayots Dzor. Tecnologie moderne, gli scavi a una manciata di km ed etichette tagliate a metà come una tela di Lucio Fontana, è questa la versione tradotta da Anahit Marutyan, un alter ego della Simona Geri in versione caucasica. “New approach to old traditions” recita il loro sito; uno slogan che incarna in pieno le strategie da adottare quando si è figli di una terra antica ma si vuole modulare una frequenza in sintonia con i mercati d’oggi.
R-ito
Il vino in Armenia non nasce come bevanda, ma come un vero e proprio rito. Lo testimoniano le antiche karas e, lungo il filo della storia fino ai tempi moderni, le celebrazioni religiose e sociali. Pensiamo alla “Benedizione dell’Uva”, una cerimonia che ancora oggi è presente nella fede apostolica armena o all’invocazione “by bread, wine and the living Lord!”. Diffuso anche in ambito medico, talvolta inserito in uno strano mix che comprende vino e melograno (una bevanda tutt’ora prodotta e che potrebbe orientarsi su quei mercati occidentali alla ricerca di alternative no e low alcol), la grande differenza tra italiani e armeni sta nei racconti d’infanzia, vissuti o tramandati, in quanto noi italiani abbiamo ricevuto ancor prima di un’educazione scolastica un tramandarsi familiare da sempre legato al cibo e alla tavola che, seppur di natura domestica e contadina, fatta di scampagnate familiari o tavole imbandite con i parenti, unisce alla nostra esperienza un legame indissolubile con questa bevanda, mentre il popolo di Hayk, una volta inglobato nel pachiderma sovietico e costretto fino alla sua dissoluzione alla produzione di solo Brandy, lamenta quanto è stato distrutto, vietato o negato nel corso degli scorsi decenni affinché nel Paese si interrompesse quella tradizione vitivinicola per pura decisione politica. Questo spiega anche la diffusa presenza del vitigno Kangoun, principale responsabile dei distillati locali, e la recentissima storia “imprenditoriale” di questa Repubblica nel mondo del vino che, a guardar verso Est dal nostro Belpaese oltre le sponde dell’Adriatico, ricalca alcuni Paesi dell’ex-Jugoslavia. Ma c’è chi prende e se ne va e chi rientra proprio per creare nuove opportunità da quel rito, come nel caso di Karas, che dalle cime dell’Argentina torna tra i terreni rossastri della sua Armavir, rimpatriando con un pool di enologi ed esperti nel tentativo di dare una scossa sulla scena internazionale con una vigorosa produzione da vitigni autoctoni, sui mercati occidentali con la linea dedicata agli internazionali e ricongiungersi a quel “come una volta” sperimentando insieme a Gabriel Rogel un Kangoun macerato in anfora.
M-ito
Secondo la Bibbia, fu proprio sul Monte Ararat che Noè piantò la prima vite dopo il diluvio. Questa immagine biblica del vino come rinascita e salvezza ha un valore simbolico per il Paese. Oggi, l’Armenia cerca di rivivere quel mito, posizionandosi come un nuovo polo nella tecnica e nell’esperienza enoturistica senza slegarsi troppo da storia e leggenda. Basterà per una Nazione che deve affacciarsi su un mercato molto più complesso e ramificato, sfidando i giganti del vino? Come i loro cavalieri medievali che portavano con sé vasi di vino per nutrire corpo e spirito, credo sia il caso di riprendere la rotta diffondendo il verbo locale senza montature né forzature, rappresentando semplicemente sé stessi. L’industria è emergente e ancora in fase di collaudo, ma la sua mancata presenza negli scambi internazionali unita a una fortissima curiosità per le sue antiche radici possono essere lo start per una strategia vincente che, forte di una buona dose di investimenti prima in Cantina e poi nella comunicazione, possono far breccia nel proprio target di riferimento, quello destinato ai Fine Wines. Lo vedo già nel futuro prossimo di Voskeni, sogno realizzato postumo dagli eredi di Smbat Mateossian, impegnati dal 2008 nella riabilitazione di quel progetto confiscato a metà cammino lungo il monte Ararat.
E-noturismo
L’enoturismo è una delle principali leve su cui l’Armenia sta scommettendo. Il Congresso di Yerevan ha chiarito che il futuro dell’enoturismo sta nell’ampliamento delle opportunità che legano le infrastrutture alla fruibilità degli itinerari, senza dimenticare quel tocco multidisciplinare che dovrebbe integrare il non enoturista all’esperienza vitivinicola e il Winelover all’approfondimento eno-culturale. Piccoli passi in avanti sono stati compiuti e i segnali positivi lo registrano, ma non dobbiamo dimenticare il fragile assetto geopolitico e le limitate risorse di un Paese che da solo può giocare la propria partita, ma senza una vera e propria “campagna acquisti” difficilmente raggiungerà la zona calda della classifica mondiale. Ma se c’è una caratteristica intrisa nel DNA armeno, questa è la perseveranza. L’abbiamo vista da Trinity Canyon, un trio che dalla ristorazione è diventato con Artema “4 amici al bar”, anzi al wine bar. Ci provano nel 2009, poi arrivano le nuove macchine, infine le anfore e l’area esterna per le degustazioni. La struttura non è delle più romantiche, ma quella musica che in barricaia allieta il lavoro degli impianti Enoveneta e Della Toffola al piano superiore crea il giusto legame tra tecnologia e storytelling, con una confusione di etichette che se non erro raggiunge le 14 unità, ognuna legata ad aneddoti brillantemente raccontanti dallo stesso Artema, un vero e proprio performer dell’enoturismo.
N-umeri
Con una quota di ettari vitati pari a metà Abruzzo, appena 150 Aziende di cui solo 5 superano il milione di bottiglie, turbolenze di mercato e instabilità geopolitica, non è certo semplice per gli armeni ritagliarsi un ruolo nello scenario globale. Il volto millenario, per quanto lo caratterizzi e lo scaraventi indietro nel tempo e nella famiglia “Ancient World” secondo il WSET, non basta in un agglomerato di nuove aziende spesso alla prima esperienza e con alle spalle qualche vendemmia appaltata ad enologi francesi e italiani. Il principale partner commerciale, la Russia, assorbe circa l’80% del loro export, mentre il continente europeo, nella maggior parte dei casi alla ricerca disperata di collocazione delle proprie eccedenze nazionali, non ha ancora spalancato le porte a questo piccolo mondo antico. Con una produzione dove il “rosso di sera” prende il sopravvento rispetto alle altre tipologie, dove metodo classico e macerati sono una timida introduzione degli ultimissimi anni, spetta ai grandi player del Paese, tra cui la ben nota Armenia Wine Company, sfruttare know-how e leve commerciali per fare da ariete sulla scena commerciale globale, così come non troppi decenni fa le grandi cooperative e le aziende storiche italiane di ossatura hanno promosso denominazioni e tipologie in lungo e in largo per il globo, cercando di evitare, almeno in questo caso, di cavalcare troppo l’onda dei consumi e ritrovarsi a essere definiti “the Italian Coca Cola” come è successo a noi.
I-dentità
Senza cedere alla tentazione di imitare modelli internazionali, accontentando quei palati che prediligono ancora forti residui zuccherini o predominanza del legno, l’identità del vino armeno si basa su un pedigree fatto di conformazioni asimmetriche, forti escursioni, vitigni impronunciabili, altezze da vertigini e pratiche agronomiche sostenibili. Basta ciò per attrarre i palati moderni? A mio avviso, la domanda potrebbe essere incompleta mentre la risposta, come la verità, sta nel mezzo. Perchè se il il grosso dei produttori armeni è ai primi tentativi di “moderna” vinificazione, potremmo complicargli troppo la vita noi italiani nel pretendere acidità taglienti, residui azzerati e legni impercettibili in quanto siamo riusciti nel tempo, seppure non del tutto e non senza difficoltà, ad abbandonare quei canoni “più è alcolico/fa legno, più è buono” e a riscoprire vitigni come Erbaluce, Timorasso e Nerello Mascalese piuttosto che concentrarci ulteriormente sui vitigni internazionali. Perchè quando le cose te le ritrovi in casa e hai paura che ti vengano sottratte, lo sappiamo come va a finire, scatta quell’attaccamento tra orgoglio e gelosia che ti fa apprezzare, talvolta maniacalmente, ciò che è tuo, ma lo sappiamo bene, al vino occorre tempo e loro ne hanno avuto ancora troppo poco. Un sentimento che devono conoscere bene i fratelli Mechanyan di Alluria che, nonostante siano geolocalizzati in quello che potremmo definire il loro Vaticano, la città di Echmiadzin, dedicano la loro impresa vitivinicola al di là del confine, al villaggio di Aylur. Un vortice in terra Santa, se consideriamo il carisma e l’irruenza di Samuel, deciso, così come ci è apparso per ogni vignaiolo incontrato fino ad ora, nel ricomporre il mosaico armeno facendo quadrato tra tutti i rimpatriati, le nuove generazioni e i vecchi del mestiere, per un rilancio collettivo del sistema vitivinicolo armeno che sia accogliente in casa e veritiero nelle sue produzioni.
A-desso
Ovvero il momento di agire. Problemi di forza maggiore permettendo, cui non è da escludere l’invasione di campo o il vortice conflittuale che potrebbe nuovamente inserirla all’interno dello scontro, gli strumenti per emergere ci sono: un patrimonio enologico unico, una crescente attenzione internazionale, un settore enoturistico in espansione, una profonda e diffusa cultura che attraversa sia i luoghi che le persone. Ma la strada è ancora lunga e piena di insidie, relative alle infrastrutture e al marketing, alle tendenze di mercato e ai futuri assetti geopolitici, fino alla necessità di educare il consumatore al vino e alla cultura locale. Come ha evidenziato il Segretario Generale dell'UNWTO, Zurab Pololikashvili, l'Armenia ha un potenziale enorme, ma deve saperlo sfruttare con strategie innovative e collaborative. Dal canto mio, adesso che ho avuto il piacere di conoscere e assaggiare un buon 30% della loro produzione nazionale (ricordate che il numero di Aziende complessivo è di appena 150 unità circa) e conoscere chi quotidianamente dimostra il proprio impegno sul campo, come Zaruhi Muradyan della Fondazione Vino e Vite dell’Armenia, mi permetto di dedicare una parola a quelle realtà che, accogliendomi, mi hanno catturato… ovviamente in senso buono:
Holani: Il grande gigante buono diventato farfalla. Interessante il twist cosmopolita tra Kangoun, Aligote e Chenin Blanc
Hovaz: i canoni di una sensualità moderna, dove il metodo classico incontra il brut nature
Northern terroir: gli armeni della provincia a nord con i loro dialetti, le loro usanze e il loro Lalvari
Givany: lui un artista country, lei una sensibile voce da solista. Una band con qualche buona hit da lanciare sulla scena
Manukyan: il controllo del vignaiolo, la precisione di uno stratega. Un brand che non mi dispiacerebbe ritrovare qui in Italia
Nb: a questo testo ho voluto dare il titolo di “restaurARMENIA” perchè auguro a questo Paese, a differenza del nostro processo di Restaurazione che ha visto il ripristino dell’Ancien Régime, un ritorno a quel mito antico, lo stesso che aveva portato Noè a salvare tutto, anche la vite, proprio da qui.
Dedicato a Sergio Coppola, un amico. Tutto è iniziato durante una London Wine Fair con un banale "Armenia! Andiamo a vedere"
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