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IL "TAGLIO PERSONALE" DI UN CONCORSO INTERNAZIONALE - Emozioni dal Mondo

Aggiornamento: 4 nov

La belle Epoque nelle locandine e lo stile Liberty negli edifici. L’acqua termale, quella minerale e un forte acquazzone autunnale… è questa la cornice della XX edizione di Emozioni dal mondo, una rassegna annuale sul taglio bordolese, uy perdòn, qui si chiama “vino niger”, proveniente da ogni longitudine e sotto i colpi di penna di professionisti da ogni latitudine.


Un viaggio alla scoperta delle “piccole Bordeaux” in giro per il mondo? Visti i trend di consumo, punitivi proprio nei confronti dei rossi strutturati e le sfide che ruotano attorno al fiume Garonne, tra espianti, proteste, sovrapproduzione e metamorfosi ambientali, meglio di no. L’unico denominatore comune qui è l’impiego dei due vitigni che rientrano nella categoria degli internazionali, ma separiamo il pronostico in base al Paese, o meglio zona, di provenienza, includendo mille e più fattori che possono intervenire per potenziare, snellire o tonificare questi due famosi pesi massimi. Perché è chiaro a tutti, Merlot e Cabernet Sauvignon sono diffusi in lungo e in largo ma ciò non significa omologazione né tantomeno semplicità nella sua produzione.


Così, in Val Brembana, dove lo stereotipo accende la sfida ed accentua le differenze tra Nord e Sud, sono arrivati nella città di San Pellegrino Terme ben 306 campioni provenienti da 26 Paesi per il Concorso Internazionale che dispone Cabernet Sauvignon e Merlot in questo piccolo mondiale dove giudici, giornalisti ed enologi dovranno decretare al di fuori di ogni ragionevole simpatia il vincitore assoluto.

Si valutano così, alla cieca, circondati dalla propria commissione e sotto la guida del Presidente di Giuria, senza troppe informazioni sui campioni e senza scambiare troppe battute tra i colleghi, qui la concentrazione è tutto, guai a perderla!

Con una forte (seppur non ovvia) presenza della compagine italiana, sia nelle etichette che in giuria, è la Serbia il fattore wow di questa edizione, per lo meno nel numero di campioni ammessi, con un parterre di circa 70 esemplari destinati a influenzare le quotazioni dei bookmakers e assicurarsi una buona probabilità di salire sul podio. Ma in queste circostanze il racconto e i numeri non bastano e quindi, ad armi pari, ad ognuno la propria chance di vittoria. 


Sono in commissione anch’io, tra penne storiche e volti che fino a quel momento avevo intravisto solamente sfogliando tra pubblicazioni di settore, e per quanto non sia un grande fan della scheda tecnica di valutazione, è forse l’unico modo ad oggi applicabile per definire una produzione secondo canoni e criteri oggettivi, di quelli che abbiamo studiato durante i corsi e che pian piano abbiamo abbandonato a favore dell’interpretazione personale. Qui conta il risultato e una leggerezza potrebbe premiare o punire un’etichetta, quindi massima allerta su ogni indicatore, cercando, per quanto sia estremamente difficile da cogliere, di individuarne le ragioni che incrementano o penalizzano un singolo valore, ripartendo da zero ad ogni nuova voce sulla scheda.


Una vera e propria metafora della vita stessa, che prima ti fa l’esame e poi ti spiega la lezione, con l’unica differenza che a tutto ciò, almeno noi in commissione, eravamo preparati.

Dopo pochi assaggi si comprende meglio il registro “classico” e il predigree del taglio bordolese, ma non mancano le sorprese e in giuria, per quanto non sia paragonabile a un lavoro di fatica fisica come in fabbrica, si avvertono i primi segnali da lingua ruvida, denti violacei e cavo orale anestetizzato da questa combo vino-legno. 


Il gesto si ripete copiosamente: si riceve il vino, si prepara la scheda e si impugna il calice, con una prima inquadratura sul calice in controluce mentre un paio di swirl precedono olfatto e gusto, poi giù a riempir la sputacchiera, diventata ormai più densa di una tanica di petrolio. La mente resta lucida, attenta a non farsi condizionare da qualche commento e nel tentativo di mantenere la precisione in una valutazione ragionata, senza attribuire ai valori alcuna connotazione emotiva, anche se la spossatezza avanza.


Tra legni fitti, legni che paralizzano la mandibola e legni immaginari, a sorpresa realizziamo il giorno seguente che è un austriaco, rosato, dolce, ad aggiudicarsi l’unica Gran Medaglia d’Oro del Concorso. È il Cabernet Sauvignon Rosè Auslese di Hersteller Weinbau Gangl, coltivato a Sud-Est di Vienna, dove l’Austria sfiora l’Ungheria e i laghi dipingono d’azzurro le colline tra il giallo e il verde pastello.


A seguire sul podio, qualche vecchia conoscenza, come la Cantina Magri Sereno di Scanzorosciate, uno dei pochi produttori a giocare in casa e la serba Jovac, ma non mancano Romania, Australia, Rep.Ceca, Grecia, Germania, Canada, Ungheria e Sudafrica a completare questo puzzle che riflette perfettamente il nome della competizione e le sensazioni percepite: emozioni dal mondo.


Una sezione a parte è stata dedicata alla scelta dei giornalisti, ai quali faccio parte, con un premio speciale attribuito alla singola Cantina che ha raggiunto il punteggio più alto per la propria nazione. Sono stato molto felice, per quanto non ricordi esattamente il punteggio assegnato durante la sessione d’assaggio (e non è un bluff come accade nelle puntate di 4 ristoranti di Borghese), nello scoprire che ad aggiudicarsi il premio per l’Italia sia stato il Castello di Grumello, una realtà molto attiva e attenta nel produrre vini in un intreccio di azioni mirate che abbracciano dalla storia al bosco, dall’enologia alla comunicazione.


Ciò che appare ancor più nitido il giorno dopo, a mente lucida, alito fresco e anagrafiche dei vini alla mano, è la comprensione dei Paesi e dei loro rispettivi timbri di produzione, con uno stile di lavorazione più snello e varietale nel Vecchio Continente contro alcune produzioni che combinano i possenti aromi e le componenti tattili dei due vitigni in altrettanta opulenza di barrique specialmente nel Nuovo Mondo e nei Paesi dell’Est Europa.


Ma se qui ci si “limita” ai giudizi di un prodotto fatto e finito, molto interessante è stata l’apertura al dialogo proposta presso il Cine-Teatro di San Pellegrino per abbracciare temi non solo legati alla viticoltura e la produzione di questi vini, ma anche la sua direzione nei mercati, la prospettiva relativa ai consumi, le alternative nel packaging, il ruolo dell’enologia nella comunicazione e l’analisi dei difetti. In una frase “il futuro del vino o il vino del futuro?”.


Ciò che mi ha particolarmente colpito è l’analisi di Vincenzo D’Antonio, giornalista che ha raccolto diverse testimonianze fotografiche ed editoriali in un viaggio nel tempo che ci evidenzia come da un secolo a questa parte di “calo nei consumi” e di “giovani che bevono sempre meno vino” si sia sempre parlato, proiettando noi spettatori dall’Italia del ventennio alla Francia di metà ‘900 fino agli ultimi titoli dei giorni nostri, in cui sembra non esserci scampo per questa crisi e inesorabile allontanamento dei consumatori. Interessante il distacco tra la notizia e il dato, tra la ricerca delle soluzioni e le cause del problema, dove la comprensione delle logiche odierne affonda le radici negli stessi errori che ciclicamente si ripetono e vedono il binomio natura-industria combattere per il proprio predominio. 


A fine sessione, ancor più convinto di alcune personali tesi che da tempo porto avanti, ritengo che il “crollo” dei consumi sia poco più di uno slogan destinato a generare panico senza chiavi di lettura sufficienti, perchè come in ogni settore, in ogni epoca, quando si tira troppo la corda, sappiamo poi com’è che va a finire, e noi che eravamo certi di poter convincere ogni essere umano sulla terra di ogni nazione emergente a sorseggiare un calice assecondando i nostri registri di produzione, forse ci siamo sbagliati. Rendersene conto è forse il primo passo da compiere per poter affrontare insieme il nocciolo della questione, dove la cognizione a medio-lungo termine di un mercato dinamico, cosmopolita e saturo deve allinearsi, e non sovrastare, un tessuto professionale alle prese con i capricci e le ferite della natura, dove l’una è diretta conseguenza dell’altra.


Lascio San Pellegrino Terme particolarmente idratato e rinvigorito; sarà stata la sua proverbiale acqua o quel binomio vini-giudici dal mondo che mi hanno permesso di rafforzare quella posizione personale nei confronti del settore di provenienza, rendendo il proprio operato utile verso quel nucleo di operatori che fa capolinea nella comunicazione del vino. Oltre al classico confronto e assaggio di cultura locale, prendo in prestito le parole dal Direttore Sergio Cantoni che agli sgoccioli di una tre giorni di “palestra” vitivinicola, si è così rivolto ai colleghi enologi presenti in sala:


“Non dobbiamo abbandonare la scena. Abbiamo ceduto lo scettro della comunicazione”.

Ed io, che di comunicazione mangio e vivo, sono dalla vostra parte, perché se posso farlo è anche grazie a voi che siete lì, dove parte tutto: la terra.


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