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VINITERROIR - quello che le fiere non dicono

Aggiornamento: 2 mag 2023

Le grandi Fiere non sono più quelle di una volta e oltre ai fini commerciali, main focus della manifestazione che sembrerebbe non aver deluso le aspettative, può essere interessante per l’utente andare a ricercare nuovi legami, di quelli che attraverso i banchi d’assaggio fanno appassionare a un territorio, a una produzione, a un legame antropologico tra la società che coltiva la vite e viceversa, abbracciando a pieno la sintonia tra vino e produttore.

Questo Vinitaly, come ogni sua edizione del resto, ha permesso nuovamente di darci appuntamento in un unico luogo, ma al di là degli scenari strettamente connessi alla fiera, in cui basterebbe incollare i dati presenti sui comunicati stampa per esporre i numeri legati a Vinitaly, vogliamo piuttosto tradurre la nostra esperienza in un “ViniTerroir”, una raccolta di testimonianze che dai padiglioni di Verona ci proiettano in areali ben precisi, località specifiche, tra mani che avvolgono il salice, volti rivolti verso la collina e percezioni tangibili da affrontare in loco, non qui. I comunicatori? Li abbiamo visti un po’ tutti, ma come giustamente sottolineato da Simona Geri nel suo ultimo articolo, li abbiamo visti più interessati a scattare selfie o inquadrare calici nelle serate sponsor, così come tra un Luca Maroni sigaro alla mano fuori dal Padiglione Calabria, un Pignataro copiosamente intento a spiegare la Campania ad altri campani e un Cernilli che fa bella mostra dell’olimpo di produttori già plurimenzionati, vogliamo riprendere il contatto con le pulsazioni di questa 55’ edizione di Vinitaly puntando dritti al cuore, ascoltando i sospiri e le motivazioni di alcuni produttori al suo interno che, senza alcuna retorica, ci inviteranno a seguirli attraverso le indicazioni di Zenone e quindi poche parole e più ascolto, abbiamo due orecchie e una bocca.


Tenuta di Artimino - Carmignano

Malgrado storicità e regione di riferimento, è spesso fuori dalle grandi competizioni. Sorge a pochi km dalla città di Prato dove i Medici edificavano le loro dimore per banchetti, scampagnate e vino: Carmignano. Raccontare quest’eredità è per Annabella Pascale saper trasmettere innanzitutto un senso di fedeltà verso le origini, quando il Cabernet Sauvignon fa la propria comparsa proprio in quest’area molto prima della dicitura SuperTuscan, in tempi in cui a dettare l’attinenza di un vitigno a un territorio erano le caratteristiche del terreno, le precipitazioni e più in generale le condizioni pedoclimatiche in questo caso diametralmente opposte a quelle del vicino Chianti Classico o Brunello. Nel 1716 sono definiti da Cosimo III “vini atti a navigare” eppure è il senso di campagna e di vita rurale a prevalere nelle sensazioni tattili di questi vini in cui la potenza domina. Passano gli anni ma il senso di fatica è ben evidente anche nella nuova direzione di Giuseppe “Gepin” Olmo, il recordman che ritrova nella Tenuta un rifugio, non sicuramente il riposo. Ad accompagnarlo nei processi e nei progressi, il Sangiovese sarà il “partner in wine” ideale non solo a sviluppare una più attinente produzione identitaria, ma anche il compagno di banco (e barrique) del Cabernet per ottenere una trama scorrevole e al tempo stesso complessa nella caratterizzazione dei vini Carmignano DOCG della Tenuta di Artimino.

Perché Carmignano è una DOCG storica in cui non ci si vuole focalizzare esclusivamente sull’impiego e la percentuale del vitigno, sul taglio bordolese o sugli affinamenti in legno, bensì vuole rivelare il mosaico al suo interno fatto di pezzi disomogenei, tra arenarie e calcari marnosi, corridoi di venti ben separati e scheletri che si intersecano al calore della superficie… in cui la Tenuta riveste un ruolo da “buon padre di famiglia” offrendo al pubblico una villa medicea oggi Patrimonio Unesco con albergo diffuso e museo etrusco, il tutto nella compagnia di circa 700 ettari a dar sollievo a viti e ulivi, perché il vino è indissolubilmente specchio di tutto ciò. Vedere per credere? Assaggiare “Il Grumarello” annata 2017, Carmignano Riserva composto da 60% Sangiovese, 20% Cabernet Sauvignon e 20% Merlot per mettersi comodi e accedere al “trailer ufficiale” della fiction made in Tenuta di Artimino, disponibile a due passi da Firenze, in Carmignano.


Masseria Cuturi - Manduria

“Scambiatevi un segno d’amore”, potrebbe essere stata questa la frase che ha preceduto l’ingresso del Primitivo a Manduria. Perché in dote la Contessa Sabini da Altamura porta a Don Tommaso Schiavoni proprio delle barbatelle di quel vitigno che coltivavano nelle Murge, gettando le prime fondamenta che trasformeranno Manduria dal 1881 ad oggi l’epicentro del Primitivo grazie alla loro “love story”. Origini dalmate, un cugino che “vuò fa l’americano” e un vasto tavoliere in cui si prediligono surmaturazioni e carattere “bold”, concentrazioni e lunghi affinamenti, è questo il sentimento comune in riferimento a questo vitigno sulla cresta dell’onda eppure così omologato, quasi a non volerne premiare le doti caratteristiche di partenza. Così nasce la sfida della nuova direzione di Masseria Cuturi capitanata da Camilla Rossi-Chauvenet che, ripristinando la dimora storica e i vigneti abbandonati, studia dal 2008 una diversa veste per il Primitivo, più raffinato, gentile, coerente con i Signori che qui lo hanno impiantato e vicino a un pubblico che vuole riscoprirne le caratteristiche varietali senza oppressioni. Tumà, è questo l’affettuoso richiamo in etichetta a quel Don Tommaso che due secoli fa ha avviato il sentiero dove ora filari di Primitivo raccolgono la salsedine dalla costa Jonica e che adesso vogliono brillare tra i calici color porpora senza vestiti addosso, sulla riva del mare con in corpo solo 13 gradi. Riscoprire un territorio passa anche attraverso la conoscenza delle sue ribellioni, quelle che tra brigantaggio e massoneria hanno mantenuto vivo un sub-strato tra sacro e profano dal quale non possiamo nasconderci.

L’intenzione è proprio questa: non cavalcare la moda, l’attuale concezione, il paradigma e lo stereotipo, il Primitivo è qui da secoli e racchiude a sé le ferite e le menzogne di decenni di abbandono, di allevamento a pergola per svendersi in Toscana e altrove, di estirpazioni forzate in favore di altre colture, ma è anche la vena aorta di una regione che dai recenti successi legati al comparto turistico prende maggiore consapevolezza del proprio DNA, della propria autenticità, il proprio modello di vino in riva al mare e adesso è il momento di eliminare il superfluo e cambiare le regole del gioco, è il momento di mostrare il Primitivo delle origini. Come? Qualcuno ha detto Cuturino?!


Malgiacca - Capannori

Qualche anno fa diceva: “bianco e rosso per me sono solo i colori del vino”. Poi quelle etichette le ha colorate, le foglie sugli alberi imbrunivano e le stagioni scandivano la tavolozza di colori che dominava la sua collina in provincia di Lucca. Ecco che Saverio Petrilli dal maestro del surrealismo Salvador Dalì non prende solo la forma dei baffi, ma anche quella visione “surrealista” da riportare in etichetta, mentre nella vita di tutti i giorni ha ben saldo il valore della vicinanza e l’amicizia, vista l’unione che vede Lisandro Carmazzi, Luigi Fenoglio, Sarah Richards e Brunella Ponzo uniti nell’opera denominata “Malgiacca”. Sono vignaioli, esploratori delle proprie terre e artisti locali che trasferiscono le proprie gesta in vino. Li vogliono decisi, pieni di carattere ma anche romantici, come i pendii che fissano il mare all’orizzonte e trasportano con sé quel fascino di una Toscana saggia e inesplorata. L’avventura comincia ripristinando l’equilibrio vite natura, con il recupero di vigne vecchie e i principi della biodinamica applicati diligentemente in agricoltura. Si passa poi al vino: i nomi riflettono un certo bipolarismo o meglio, una semplicità nella trascrizione che racchiude a sé diversi significati. Rosso 2018, Rosso 2017, Bianco 2020, Bianco 2019, e così via… ma anche Tingolli e Dalìtro, ovvero un cru che parla dialetto lucchese e ricorda l’andamento minuto per minuto di ogni stagione, mentre l’altro, come “la persistenza della memoria”, raffigura l’autore Dalì su varie tinte, ma non cambia la sostanza, anche se Saverio ci scherza confessandoci che un suo cliente “preferisce l’etichetta rossa”.

“Il vino nella nostra società riesce a sciogliere molte resistenze” continua Saverio “e questo è il suo significato in relazione alla natura. Inoltre, il vino riesce a viaggiare nel tempo e nello spazio, rendendolo un elemento culturale particolarmente elevato. Il nostro legame con la città e la comunità di Lucca è scandito da diversi fattori, alcuni anche storici e che vogliamo preservare, come la nostra proverbiale apertura verso il prossimo, l’assenza di individualismo e la volontà di fare rete che ci ha permesso anche in questo caso di seguire un percorso comune sotto gli stessi principi e la volontà di manifestare all’esterno la genuinità e l’intraprendenza del nostro territorio”. Tornando poi vino al vino, come diceva Soldati, il bianco di casa Malgiacca deve mostrarsi delicato, sensuale e gioviale, ben conscio di giocare la propria partita in terra di rossi e quindi fuori dalla categoria full bodied. Mentre il rosso deve portare sviluppo, profondità, riflessione… dove il Sangiovese è il padrone di casa ma anche un buon oste che lascia spazio agli altri vitigni in blend, diraspati a mano come da tradizione e che siano espressione di terroir, non di Cantina, con valori di solforosa ben in vista e un liquido denso che ti proietti nel surrealismo lucchese. Un buon motivo per approfondire e venire a Lucca? Saverio ci convince così: “perché si beve bene!”.


Fontanavecchia - Torrecuso

Origini millenarie, guerrieri e stregoneria, il Sannio rappresenta oggi oltre il 50% della produzione vitivinicola in Campania. Dalle forche caudine ad oggi, l’areale che fa quadrato nella provincia di Benevento è alle prese con un restyling che vuole scrollarsi di dosso il passato da “serbatoio” e vuole ridare prestigio ai due principali autoctoni campani, l’Aglianico e la Falanghina. Per Fontanavecchia, Cantina sorta nell’omonima contrada di Torrecuso, il grido di battaglia parte proprio da qui, da quelle falangi bianche simbolo di resistenza, identità e vigore. Una nuova veste avvolge il suo frutto, ma è solo il traguardo di un lungo e tortuoso viaggio che ha visto l’equipe guidata da Libero Rillo alle prese con la Falanghina per individuarne l’identikit a seconda dell’areale, giocando sulle sue molteplici personalità. Ne è nato il “progetto Libero”, non una semplice autocelebrazione in quanto si riferisce al Dio italico del vino, della fecondità e del vizio che punta ad un ampliamento dell’attuale produzione in cui zonazione, esposizione e provenienza sono i pilastri per evidenziare le differenze della stessa uva vinificata in maniera analoga ma che punge o solletica in maniera distinta a seconda del terreno.

Uno studio che nasce oltre 20 anni fa, un po’ per studio e un po’ per sviluppare il potenziale ancora nascosto della Falanghina, un vitigno che negli scorsi decenni veniva percepito in maniera poco clemente. Dallo Charmat ai lunghi invecchiamenti l’imperativo è: giù le rese e sì alla parcellizzazione. Oggi sono 4 le etichette in commercio e l’obiettivo da raggiungere, seppur la Cantina e il Consorzio siano ancora ai nastri di partenza, è sempre più tangibile visti i numerosi tour e le frequenti partnership trasversali che legano il floreale guerriero sannita alla cucina tipica locale in tutto il mondo. Un vero e proprio balzo in avanti se pensiamo che, pochi decenni fa, in una confessione personale, il Dr.Riccardo Cotarella disse: “ quando cominciai, dovevo elaborare un Vermouth e visto che ci occorreva un vino neutro e poco caratteristico, pensammo subito alla Falanghina”. Insomma, mai svegliare il guerriero che riposa!


La Maliosa - Saturnia

Si definiscono fattoria, portano valore al paesaggio assecondandone i ritmi e nascono dal verbo “ammaliare” per la bellezza delle proprie vigne giardino. Ecco la risposta etica ed estetica di Fattoria La Maliosa. Conoscono bene la fragilità del sistema e per questo motivo non vogliono accelerare il passo, bensì accompagnarlo circondati da una natura che sappia guidarli in una produzione leale, benevola, prudente. In Cantina troviamo lei, Antonella Manuli, donna che contrariamente a quella di Cocciante di anime ne ha due, per quanto le reali intenzioni siano le stesse: La prima è rivolta sull’areale di Saturnia, dove si concentra il nucleo aziendale e i vigneti convivono in equilibrio con uliveti, seminativi e boschi per un totale di circa 170 ettari con suoli a prevalenza di argilla e sasso caotico. La seconda è sull’areale di Pitigliano, con 3 ettari di vigneti impiantati su suoli vulcanici.

Sassi e lava, vigne e ulivi, boschi e api, Antonella è un’imprenditrice con lo sguardo rivolto all’orizzonte e un’idea di natura che trova compimento nel Metodo Corino, un codice sviluppato a quattro mani con l’omonimo ricercatore e che vede la titolare intensificare il proprio impegno con divulgazioni e progetti culturali sull’essenza del vino e la biodinamica vegetale. Ma cosa è il Metodo Corino? Innanzitutto una teoria messa nero su bianco, appositamente registrata e brevettata. Include un insieme di processi innovativi per la produzione di uva e vino per dare centralità a ciò che è la salubrità dell’ambiente, la vitalità dei suoli, la salute dei produttori e non ultimo dei consumatori. È un approccio poli-colturale, suddiviso in fasi, in cui si interviene poco in vigna, poco o nulla in cantina, valorizzando al massimo la cura delle varietà storiche e il loro matrimonio con l’ambiente circostante. Tra gli autoctoni coltivati, il Procanico fa capolinea tra i bianchi mentre tra i rossi si parla di Ciliegiolo, Sangiovese e Cannonau grigio. Le schede tecniche indicano di tutto e di più, anche se quel giorno di primavera ci si è svegliati di buon umore o meno, a dare costante tracciato di un lungo percorso che vuole materializzarsi nella percezione emozionale del vino, proiettandovi qui tra i boschi ovunque voi siate. Un’esperienza che vi è concessa non solo a casa o al ristorante, ma anche qui, dove l’enoturismo è a forma di stella, con le starsbox piantate sul prato e poter vivere un calice tra terra e cielo.


Bossanova - Controguerra

Si trovano a Controguerra ma il nome della località non ha placato quel senso di ribellione che li ha spinti a voler combattere per il proprio territorio. Sono Nat e Andrea, voce e percussioni di un Abruzzo incastonato tra cime di 2.000 metri e l’Adriatico. Le colline teramane festeggiano da poco i primi 20 anni di attività mentre loro, che in questo arco temporale hanno visto ciò che succede oltre la vallata, rientrano per scardinare quel concetto di Montepulciano e Trebbiano troppo spesso rilegato a singole produzioni di successo che lasciano fuori focus vari strati di vinificatori, conferitori e coltivatori soggiogati da una comune percezione di vini a buon prezzo e poco più.

Il percorso parte quindi dalle radici, quelle di oltre 50 anni in cui comincia l’inversione di rotta e vede Bossanova sfoggiare il vessillo sulle prime bottiglie di Montepulciano nel 2018, poi sarà la volta del Trebbiano. Uno spirito familiare avvolge le sue bottiglie, il focolare domestico entra ad ogni sorso mentre la band che si alterna tra musica e vigna da un lato vuole raccogliere l’attenzione necessaria per comprendere meglio il comprensorio teramano, dall’altro proietta le sue bottiglie oltreoceano a voler dare una diversa traduzione del concetto “d’Abruzzo”. Il loro decalogo prevede tanto confronto con la natura quanto con le persone, chimica e fisica hanno il divieto d’accesso in Cantina mentre il concetto di “naturale” gravita attorno alle fermentazioni spontanee, il vero e proprio motore secondo Nat. Un incontro del tutto casuale che ha dato forza a una visione comune che non esclude vecchie pratiche e sogni nostalgici uniti ad una maggiore consapevolezza delle azioni, delle reazioni e degli obiettivi. In Abruzzo pare essere partito un nuovo slogan: Non fate la guerra, fate il vino a Controguerra.


Marisa Cuomo - Furore

“Ne è passata di acqua sotto i ponti” ci racconta Andrea Ferraioli, introducendo ai 41 anni di matrimonio in cui, all’uscita dalla chiesa, con la frase “è nata una nuova famiglia, dedico la storia della mia famiglia a mia moglie Marisa” decise di destinare a Marisa Cuomo la salvaguardia delle proprie radici, avviando al Sud Italia una delle prime imprese vitivinicole al femminile. Se pensiamo a loro la mente fissa un’etichetta in particolare, il FIORDUVA, ma quanto ne sappiamo davvero di questo vino? Innanzitutto il nome non sta ad indicare il fiore dell’uva, erroneamente menzionato in alcune carte vino col nome “fior d’uva”, bensì l’unione tra la principale attrazione paesaggistica di Furore, il fiordo, e il frutto proveniente dalla collina terrazzata, l’uva. Il nome lo suggerì Luigi Veronelli, tra i primi a recensire questa etichetta di “bianco invecchiato” a seguito del deja-vu causato dal primo sorso e lo convinse di raggiungere a tutti i costi questa Cantina sita a Furore in compagnia di Mariella Caputo e dell’enologo Luigi Moio. L’etichetta è opera di un artista di strada, un cosiddetto “acquarellista”, di quelli che bagnavano i colori nell’albume e fotografavano i paesaggi circostanti con pennello e tavolozza. “È una diapositiva che a piccoli sorsi viaggia per il globo e invita i consumatori a conoscerci e raggiungerci in Costiera Amalfitana, dove l’Azienda conta oggi circa 40 ettari vitati distribuiti in 10 dei 13 comuni inclusi nella DOC” ci spiega Andrea Ferraioli. Ma il Fiorduva ha posto un focus ben preciso sin dall’inizio, da quella prima annata desinata a creare una certa rottura nei mercati e nella percezione dei bianchi campani, presentandosi nel 2000 con appena 4.000 unità di prodotto.

Dopo un lungo lavoro di ripristino territoriale e scientifico, dove l’opera di restauro ha portato alla salvaguardia dei boschi, dei vitigni autoctoni e l’equilibrio naturale, si decide di avviare una sperimentazione affidando al Professor Luigi Moio il compito di elevare queste tre varietà: Ripoli, Ginestra e Fenile. Surmaturazione e barrique saranno il motore, ma è la roccia dolomitica e la “vista mare” che renderanno viva l’anima di questo vino oggi diventato emblema della Costiera, famoso a tal punto da aver tracciato un solco profondo nell’areale tanto da facilitare il compito anche agli altri produttori permettendo di collocarsi in alto sui mercati nazionali e non. Questa è storia, ma qualcosa cambierà in Costiera Amalfitana nel futuro? Certamente, a partire dalla nuova Cantina che potrà ospitarci nei prossimi mesi, sita nel comune di Agerola, al rafforzamento di quella che è una missione salvaguardia che vede intensificarsi gli sforzi e la ricerca per mantenere, oltre al fascino della costiera, l’unione dei viticoltori e dell’equipe guidata da Marisa Cuomo.


Nessuna nostalgia, nessun ritorno al passato, perlomeno in funzione “governativa”. Brigante è intitolata così perché tra le rocce delimitate dalla proprietà si rifugiavano i briganti e niente più. Un ottimo punto di vedetta e un buon riparo dalle intemperie, ecco che qui uomo e natura trovano le loro condizioni ideali per metter su radici e godere della vista mare mentre crescono, maturano e osservano. Spoiler alert: sarà una delle 7 sottozone della nuova DOCG Cirò, la prima in Calabria. Oltre 100 anni di esperienza e un filo conduttore che collega l’albero genealogico alla produzione di vino locale, la linea ZERO. È un vino dai superpoteri, o meglio pare li acquisisca quando la bottiglia è avvolta nella carta, così come ci racconta Enzo Sestito scavando nelle memorie in cui ricorda il padre che destinava a questo gesto una particolare importanza, come se quell’azione riuscisse non solo a preservare ma anche a difendere quel prezioso liquido da tutte le intemperie. Ecco che quel gesto torna oggi nel nuovo packaging e insieme torna anche il formato da 1L, mentre tra il mosto e il vino c’è zero, zero e ancora zero. Vale a dire: zero solfiti aggiunti, zero filtrazioni e zero lieviti selezionati. Un azzardo? Neanche tanto, piuttosto un atto di responsabilità verso il padrone locale, il Signor Gaglioppo.

L’uva è carica, concentrata di zuccheri e nei millenni di permanenza tra argilla e frescure marittime sa come concedersi al meglio tra le mani che lo raccoglieranno a fine settembre. Ma se in principio era vite, ora c’è bisogno dell’ingegno per farlo diventare vino, ed ecco che scatta l’altra intuizione: vinificarlo in bianco. Adesso sì che stiamo parlando di un caso più unico che raro, perché nel complesso e variegato bagaglio ampelografico calabrese sembrava di assistere a una contrapposizione bipartisan tra rossi nervosi e bianchi fragranti, in cui la doppia personalità del Gaglioppo non aveva ancora dimostrato quel fattore X nella sua veste in bianco. Ecco così che si decide raccoglierne i tratti somatici, quelli di un’uva psicologicamente acida, dal PH basso e dalla carica esplosiva, che separata immediatamente dal pesante mantello rossastro vuole sferrare colpi dritti alla gola con risvolti densi, erbacei, balsamici. Sarà l’anno zero di un vino che senza troppe storie, punta ad essere un numero 1.


Conte Vistarino - Rocca de' Giorgi

È la “Casa del Pinot Nero” da quando nel 1850 il Conte Augusto Giorgi di Vistarino piantò per primo in Oltrepò questo vitigno importato dalla Francia. Da lì i secoli di convivenza sono stati scanditi da importanti tappe che gravitano attorno alla produzione spumantistica, l’ecosistema locale e la responsabilità sociale tradotta in patrimonio generazionale. Un certo peso dinastico insomma, oggi poggiato sulla direzione di Ottavia, l’Ironlady di Rocca de’ Giorgi intenzionata a scandire alcuni cambiamenti voluti sotto la sua direzione dalla fine degli anni ’70 ad oggi. Non solo piombo e industria in Italia quindi, ma anche flora e fauna a far da contorno ai circa 800 ettari di proprietà della famiglia in cui il Pinot Nero diventa negli anni rosso fermo, selezione, cru… ed oggi consolida da un lato le pratiche avveniristiche dall’altro la percezione territoriale al di fuori dei propri confini.

Un’idea di base: bevibilità. Come? Diversificandone le zone, le estrazioni, le procedure, senza dimenticare la base di partenza; il clima e i mezzi a disposizione sono ben diversi dai ruggenti anni 70 ma oggi abbiamo una più diffusa consapevolezza che ci aiuta a premiare l’intera sfilata di questa collezione Pinot Noir targata Conte Vistarino, ben consapevoli che numeri, storicità e dimensioni contano, altroché. Ci ritroviamo quindi di fronte a una passerella che scorre tra un 1865, il MC non dosato millesimato al Saignèe della Rocca, l’alter ego color cipria extra brut, fino al Tavernetto, Bertone, Costa del Nero, Pernice… insomma, il Pinot Nero qui non solo ha trovato casa, ha messo su famiglia. Da apripista nel segmento enoturistico in Oltrepò, sono dal 2017 aperti 7 su 7 per visite e degustazioni in Cantina, mentre prende sempre più piede quell’abbraccio con la storia e le usanze del territorio che qui possono trovare ampio spazio. Sembra quasi scritto nella sua genesi: Oltrepò per andare oltre col Pinot.


Finisce qui questa lunga seppur non esaustiva carrellata di racconti provenienti da Vinitaly. Appuntamento dunque alla prossima edizione? No dai, facciamo che andiamo a trovarli in Cantina.


Ringraziamenti:
Mattia Metta - partner in wine
Antonio Nardone - fotografia
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